Prefazione
Conosco Arshad da quasi 40 anni. Ci siamo conosciuti al primo liceo, in quella fase della vita dove tutto è possibile, nel turbinio caotico e potente dominato dagli ormoni e dalle pulsioni libertarie, a cavallo del ‘77.
Siamo da subito diventati amici, anzi direi di più, fratelli. Fratelli acquisiti per volontà reciproca e non per caso biologico. Forse perché, nell’ambito degli stessi desideri confusi ma che partivano da un’inconsapevole chiarezza di rifiuto dell’autorità, ci compensavamo con le nostre differenze di fondo, che allora erano oltretutto molto estremizzate.
Io col mio chiodo fisso di trovare una spiegazione materialista a tutti i fenomeni del mondo (che scadeva spesso nel più puro meccanicismo) e Arshad con la sua stravagante fase spirituale preponderante su tutti gli altri suoi aspetti caratteriali.
Erano serate e nottate a parlare di dio, universo, fisica, politica, ragazze, nelle interminabili camminate fatte per accompagnarci reciprocamente a casa, facendo più volte il tragitto da casa sua alla mia e viceversa, nell’arco della stessa nottata. Poi le scelte che si fanno più o meno consapevolmente nella vita ci hanno allontanato, ma solo fisicamente. Abbiamo preso strade diverse intraprendendo un percorso a partire dai nostri estremi, materiale da una parte e spirituale dall’altra. Ma era necessario per esplorare noi stessi.
Dopo tanti anni in cui spesso ci siamo incontrati e abbiamo discusso e sperimentato di quanto avessimo ancora in comune, leggendo il suo libro “La Psicologia dello Zorba, noi stessi la natura gli altri” ho scoperto che tanto abbiamo in comune. Ho scoperto che abbiamo intrapreso due percorsi che probabilmente non si incroceranno mai in un punto preciso per poi lì diventare lo stesso percorso; non è possibile, siamo troppo diversi. Ma sono sicuro che si incroceranno più volte ancora perché viaggiano ormai molto vicini e non parallelamente.
Questa precisa sensazione di accumunanza e differenza l’ho sperimentata ancora leggendo il nuovo e-book di Arshad: “Fukushima global warming e competizione”.
Un testo interessante perché innanzitutto mette in relazione argomenti che sembrano lontani, anzi, che i poteri oligarchici che governano il mondo vorrebbero che fossero considerati non correlati tra loro. Le tesi imperanti infatti vorrebbero far credere che inquinamento e degrado, impoverimento e sottomissione, siano scollegati dal tipo di sistema competitivo in cui viviamo e che siano i mali inevitabili e accettabili in nome del progresso tecnologico.
Anzi, secondo le tesi oligarchiche, la competizione a tutti i livelli, economica e politica, sarebbe la leva dell’evoluzione sociale dell’Homo Sapiens, così come quella sessuale era la chiave dell’evoluzione biologica, prima che per la specie umana la tecnologia e i sistemi politici prendessero il sopravvento su quelli naturali.
Ma nel testo Arshad lo descrive molto bene: è l’insana competizione che in realtà sta portando al collasso il pianeta Terra. Le nostre risorse non sono illimitate come vorrebbero far credere i guru dell’economia capitalista. Al contrario, sono limitate e solo una corretta e compatibile gestione di queste può garantire all’umanità e all’intera biosfera una permanenza felice e duratura su questo nostro pianeta.
E, continua Arshad, non è certamente un dissennato sistema fondato sulla competizione e sull’accaparramento economico o militare che ci può garantire questa prospettiva. Al contrario, da quando la competizione ha prodotto il sistema economico più complesso che la possa riprodurre, abbiamo assistito a un progressivo degrado ecologico e, tranne che per pochi decenni iniziali, assistiamo ad un progressivo divario tra i ricchi e i poveri del pianeta. Sfruttamento indiscriminato, fame, epidemie, inquinamento irreversibile di grandi aree; questi sono i frutti della “sana competizione”.
Ed è nel nome della concorrenza politico-economica che si sviluppa l’uso del nucleare, in quanto possedere ordigni nucleari è strategicamente fondamentale nella competizione mondiale tra Stati. Tanto che oggi, che l’impiego di energia nucleare in campo civile diviene economicamente sempre più sconveniente rispetto ad altri tipi di fonti, in molti paesi il baraccone atomico viene tenuto in piedi solo per supportare l’arsenale militare.
Arshad descrive piuttosto meticolosamente l’incidente di Fukushima, mettendolo a confronto con gli altri principali incidenti avvenuti nella storia dell’impiego di questa energia. E specialmente ne descrive quelle che sono e saranno le devastanti conseguenze odierne e future a cui già oggi stiamo assistendo. Non solo per quanto riguarda gli effetti degli incidenti stessi (che abbiamo visto essere ormai periodici), ma anche per gli esiti legati al normale utilizzo della fissione nucleare.
Per inciso, qui da noi si sta ancora decidendo su dove posizionare il deposito definitivo dei sottoprodotti del (per fortuna) breve inverno nucleare italiano, e la cosa è ancora lontana dall’essere risolta ed in territorio come il nostro sarà molto difficile risolverla. Ricordate la vicenda di Scanzano Jonico? Lì dove i nostri super esperti stavano seppellendo tonnellate di scorie in una formazione salina, salvo rendersi conto poi che la stessa poteva essere soggetta ad esplosioni a causa dell’interazione tra le radiazioni e l’intima struttura dei cristalli salini. Stiamo parlando di depositi che dovrebbero rimanere integri anche centinaia di migliaia di anni, in un paese come l’Italia la cui stragrande maggioranza del territorio è sottoposta a tutti i tipi di rischio geologico, dall’idrogeologico al sismico, fino ad arrivare al vulcanico in alcune aree.
Tornando a Fukushima, Arshad ci descrive di quanto le oligarchie al potere siano spregiudicate nel maneggiare questa fonte energetica, dalla sua produzione al suo utilizzo e di come, nel nome della competizione, se ne freghino non solo degli effetti e dell’inquinamento indiscriminato prodotto normalmente, ma anche di considerare i rischi geologici in grado di mettere a repentaglio la sicurezza degli impianti di produzione e dei depositi di scorie, con tutte le conseguenze del caso.
Nel nome della competizione e della conseguente necessità di abbassare i costi di produzione, spesso e volentieri chi ne fa le spese è la sicurezza e allora si assiste a impianti industriali altamente pericolosi, non solo quelli nucleari, situati in aree ad alto rischio idrogeologico, sismico o vulcanico.
Ma non è solo l’inquinamento legato alla produzione e all’uso dell’energia atomica che Arshad prende ad esempio per dimostrare come il regime competitivo sia mortalmente dannoso per la specie umana e per tutta la biosfera. Ci sono anche le altre forme di inquinamento a dimostrarlo. Riscaldamento globale, acidificazione degli oceani, desertificazione, inquinamento chimico delle riserve idriche, tutti processi legati ad un sistema politico ed economico globalmente fondato sulla concorrenza e sull’accaparramento delle risorse da parte delle multinazionali e degli Stati forti, in perenne competizione tra di loro per acquisire i “diritti” a spolpare e conseguentemente inquinare intere aree del Pianeta.
Si può risolvere questa situazione incresciosa? E come? Come arrestare questo inesorabile processo di degrado ambientale e sociale?
È nella parte del testo dove Arshad esplora il complesso rapporto interspecifico nell’ambito dell’evoluzione umana, che lo stesso Autore suggerisce una soluzione che è esattamente agli antipodi della competizione: la cooperazione. La cooperazione tra gli appartenenti alla specie umana è secondo Arshad inevitabile se si vuole continuare a vivere in armonia con la natura e con gli altri su questo nostro Pianeta.
Un concetto per l’Autore per niente campato per aria ma che si fonda su solide basi costituite dall’autodeterminazione e la condivisione, all’interno di un processo che prevede l’assunzione consapevole della responsabilità individuale e collettiva, senza aspettare che siano le istituzioni a dirci o imporci dall’alto come agire.
Ma non ci può essere consapevolezza senza conoscenza ed informazione, e non ci può essere condivisione senza comunicazione; ed è proprio prendendo in considerazione quest’ultimo concetto che Arshad scardina in maniera molto semplice e diretta il famoso “enigma del prigioniero”, dove la soluzione ufficiale è “viziata” dall’assenza di comunicazione tra i due contendenti. Ma questo è il gioco preferito dai privilegiati, da chi detiene il potere, quello delle istituzioni totali, intente a impedire ad ogni costo che il gioco da “competitivo” divenga “cooperativo”.
Francesco Aucone
Geologo indipendente
Nella foto, l'autore della recensione e Arshad Moscogiuri nella primavera del 1981